Anche quest’anno ci ritroviamo nel giorno della commemorazione dei defunti nel cimitero, (La parola “cimitero” deriva dal greco κοιμητήριον (koimetérion,) “luogo di riposo”, casa di chi è passato attraverso la morte, luogo della memoria dei trapassati, giardino del pianto, spazio della speranza.
Siamo venuti in corteo, anzi in pellegrinaggio, accompagnati dalla famiglia o insieme ad amici, spinti da un sentimento di attesa e di sommessa speranza nel cuore per ricordare, anzi incontrare coloro, che abbiamo amato, specie coloro che di recente ci hanno lasciato, in un desiderio di custodire e ravvivare il ricordo e rinnovare la presenza, l’affetto e la relazione di persone familiari ed amici: Un mondo che resta parte di noi, ubicato ai confini della città, ma ben custodito in un settore della nostra mente e palpitante in un angolo del nostro cuore.
Siamo qui, come comunità ecclesiale per testimoniare la nostra convinta fede e ferma speranza nella risurrezione di Gesù, ma anche della risurrezione nostra e dell’umanità intera.
Lo facciamo con la celebrazione della Messa, con la preghiera, la memoria dei nostri cari.
Ma siamo qui anche come comunità civile, rappresentata dalle Istituzioni civili e militari: una famiglia unica che ricorda e piange i propri figli, tutti, specie quelli che hanno lasciato questo mondo e la nostra comunità in maniera prematura per malattia, disgrazia, terremoto o violenza: i morti sul lavoro, quelli nell’adempimento del dovere, in particolare ricordiamo il caro Alessandro Riccetti, deceduto il 18 gennaio 2017, insieme ad altre 28 persone nella tragedia dell’hotel Rigopiano.
Tutti ci sono presenti nel ricordo affettuoso, deferente e orante.
A conforto del nostro dolore ci sovviene S. Agostino, grande conoscitore dell’animo umano e precorritore di percorsi esistenziali alla ricerca della verità: “Quelli che ci hanno lasciato non sono assenti, sono invisibili, tengono i loro occhi pieni di gloria fissi nei nostri pieni di lacrime”. (Sant’Agostino (Aurelius Augustinus Hipponensis, 354 – 430)
Questa certezza ce la dona Gesù Cristo, che è passato attraverso la morte, ma poi l’ha sconfitta con la sua risurrezione. Ce lo testimoniano Maria Santissima, gli apostoli e tanti uomini e donne che lo hanno incontrato vivo, sperimentandone la potenza.
Noi, nella parola di Dio che proclamiamo e nella celebrazione eucaristica, rinnoviamo la nostra fede e siamo immessi nel circolo della vita e della speranza.
“Gesù è morto ed è risorto;
così anche quelli che sono morti in Gesù Dio li radunerà insieme con lui.
E come tutti muoiono in Adamo, così tutti in Cristo riavranno la vita”. (Antifona d’Ingresso 1 Ts 4,14; 1 Cor 15,22)
Nella morte e risurrezione di Cristo, e nella nostra fede, trova risposta il nostro anelito ad una vita non soggetta alla definitività della morte, ma riscattata ed assunta da Gesù Cristo.
“La morte è comune eredità di tutti gli uomini, ma per un dono misterioso del tuo amore, Cristo con la sua vittoria ci redime dalla morte e ci richiama con sé a vita nuova” (prefazio dei defunti).
Chi ha fatto per primo questo cammino è Gesù, è Lui il primo che ci apre la porta della speranza con la chiave della sua Croce, per portare con sé nella vita dell’Eterno ogni persona che si affida a Lui.
“E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”. (Gv 6,39-40).
Le parole di Gesù suonano di conforto e speranza per coloro che sono animati dalla fede.
Ma per tutti vorrei proporre una breve riflessione a partire dalle parole del salmo 129, che la tradizione cristiana, ama chiamare con le parole iniziali della versione latina, De profundis. Intere generazioni usano ripetere e pregare il De profundis di fronte alla morte, guardando a Dio come alla fonte del perdono e all’unica speranza di nuova vita.
De profundis clamavi ad te Domine,
Domine exaudi vocem meam…
Dal profondo dell’angoscia grido a te, Signore;
2Signore, ascolta il mio pianto!
Le tue orecchie siano attente
alla voce della mia preghiera.
3Se tieni conto delle colpe, Signore,
Signore, chi potrà vivere ancora?
4Ma tu sei colui che perdona
e noi potremo servirti.
Prendendo spunto da questo salmo possiamo dare un significato a più livelli al profondo del nostro essere, da cui partono gli interrogativi più inquietati dell’esistenza, e anche la nostra preghiera.
“Il profondo, in questa giornata dedicata alla commemorazione dei fedeli defunti, è il dolore che si rinnova per la morte dei nostri cari, specialmente se il lutto ci ha colpito recentemente.
Il profondo può assumere la connotazione delle molteplici domande senza risposta di fronte alla malattia, alla sofferenza e al dolore umano.
Il profondo può essere anche la fatica a credere, possono essere le domande che ci poniamo perché anche quelli che credono nel Signore sono colpiti dalla malattia, dalla sofferenza e dal dolore senza speranza.
Il profondo può assumere anche il volto del disagio esistenziale, della fatica ad affrontare le difficoltà quotidiane, il peso della croce da portare ogni giorno dietro a Gesù.
Il profondo può essere il peccato del quale non abbiamo nemmeno il coraggio di chiedere perdono e che indebolisce la nostra fede nella risurrezione.
Oggi il profondo col quale ci confrontiamo, assume i connotati di Giobbe, la cui esperienza ci viene ricordata nella prima lettura.
E’ quella di un uomo, che nonostante ogni tipo di prova cui è sottoposto: malattia, disgrazie, fallimenti, non cede alla disperazione, continua la sua ricerca di Dio fino a percepirne la vicinanza di Dio e in lui pone la sua fiducia e speranza: “Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro” (cfr. Gb 19,1.23-27).
L’eucarestia che celebriamo è il banchetto nel quale Gesù si dona a tutti noi come pane di vita. E noi lo riceviamo quale “farmaco di immortalità” (s. Ignazio di Antiochia) e “pegno della gloria futura” per ciascuno di noi, ma anche per le persone care che riposano in questo luogo.